Le sette di sera di una serata piena di nebbia. Le votazioni sarebbero state dichiarate concluse alle ore 20. Quelli della presunta minoranza paventavano già ricorsi per sospetti brogli, e avevano ragione. Strane e patetiche liste di proscrizione spuntavano dalle tasche di vistose giacche di velluto marrone.
Gli scrutatori boccheggiavano alla fame e alla noia. Qualcuno riempiva i propri polmoni di fuliggine.
Il presidente aveva mangiato involtini di melanzane con mortadella e formaggio, era già al quinto caffè, ma non c'era verso: la stitichezza non sembrava avvertire le inondazioni di grappa e bicarbonato.
Qualcuno inveiva sullo spreco di denaro in manifesti, qualcun altro poneva in risalto la contraddizione insanabile del nostro secolo: definirsi democratici ed eleggere assemblee con le liste bloccate.
Si chiudeva un occhio sui troppi fac-simile che riempivano il seggio.
Il dibattito più acceso si concentrava sulla possibilità di attendere il termine della funzione in chiesa madre, per consentire ai cattolici di poter esercitare il proprio diritto, in conformità al Patto Gentiloni del 1913.
Qualcuno, accigliato, controllava il quadrante del proprio orologio con il cinturino di pelle nera, sfoderandolo sotto l'orlo del proprio maglioncino verde padano. Qualcun altro tardava ad arrivare, facendo aggravare a suo carico il macigno delle accuse di disimpegno.
La troppa gente ad osservare, e la mancanza di una serratura alla porta del bagno rappresentavano per il presidente minacce che stimolavano ulteriormente il suo desiderio di sbrigarsi.
E fu così che i tanto paventati brogli, e un'insperata avvisaglia di brusco risveglio del suo retto, rimpinguarono la solerzia con cui contava e ricontava i nomi apposti nell'albo degli elettori.
Ma lo scrutinio incombeva in tutta la sua sconcertante lentezza.
- Che cazzo di fine hai fatto? Non hai ancora votato! - contestò un astante ad un baffuto signorotto appena giunto.
- Perdonami, ho dovuto dormire. Stanotte non ho chiuso occhio. S. mi ha telefonato alle 3.00 di notte per farmi precipitare a casa sua ad uccidere un ragno formato King Kong che si annidava nella doccia. Queste son cose che destabilizzano.
Pochi minuti alle 20.00. Lo scrutinio era alle porte. E finalmente il presidente dichiarò concluse le operazioni di voto, destando le nevrosi dei candidati, e mobilitando i sederi degli scrutatori che si scossero sui lignei sedili.
In quel momento egli avvertì una spruzzata di acido gastrico e un tonfo in fondo all'addome. Il momento sembrava essere finalmente giunto.
All'atto della chiusura del voto per le primarie, il suo intestino rimboschito di enterogermina aveva lanciato il sengnale: stitichezza interrotta, il tempo della leggerezza dell'essere poteva compiersi secondo le scritture.
Incurante della natura del miracolo, se fosse stato chimico farmacologico, o adrenalinico per l'alta responsabilità di dover dirigere il contributo di duecento individui alla causa congressuale del partito, poco importanva.
Di certo una sola cosa agitava la sua mente, e la sua pancia: la breccia che si era spalancata nel suo intimo mistero doloroso.
Una scheda dopo l'altra... e benedette furono le liste bloccate così parche nel richiedere zelanti verifiche! L'attimo del bing bang era preceduto da fughe benigne che egli tendeva a rendere il meno percettibili possibili, sebbene avrebbe voluto giubilare come un volpino festante dinanzi al padrone che mostra il guinzaglio per la passeggiata urinatoria.
Nessuna protesta, la conta dei voti galoppava a ritmo felino. Gli altri segnavano, smorfiosi, a volte stupiti, in ultimo sospettosi.
Qualcuno aveva preso una decina di voti non previsti. E gli occhi correvano alla ricerca di qualche ghigno rivelatore del franco tiratore da mettere alla berlina.
Ma il presidente non temeva. L'uscita del tunnel si faceva più chiara. E mancava poco, solo le firme sui registi, affidando a qualcun altro il compito di inviare il messaggio alla federazione provinciale sull'esito delle urne democraticamente protette.
Perché a lui non interessava commentare, a lui premeva l'ansia e l'impazienza della sua libertà.
Si fiondò via.
Raggiunse la sua abitazione a piano terra. La moglie gli chiese se necessitava della sua solita tisana, ma lui rifiutò gaudente dicendo che quella sera, finalmente, non ne avrebbe avuto bisogno.
Ecco il suo seggio. La tazza a forma di conchiglia adriatica era pronto ad accoglierlo come un padre che perdona il figliol prodigo, o il culo avaro.
Si calò le brache avvertendo già il count-down di Houston.
Si sedette, sospirando, e poi gemendo, strizzando gli occhi e mettendo in tensione ogni nervo del suo corpo, pronto per sganciare...
Ancora qualche istante di tensione per rendere più glorioso il momento...
Ancora un attimo...
Dai, che ce la puoi fare... il bidet sarà il palliativo di ristoro dopo tanta corsa...
Uno sforzo...
Un altro...
Niente. Il suo ano non produsse nulla.
Guardava consternatamente in mezzo alle sue gambe il fondo del gabinetto immune da ogni traccia di cacca.
E allentò tutto nell'ennesima, sciocca pisciata in femminile posa.
Tirò lo sciacquone e si riallacciò con dignità la cinta. La vergogna si riparò alle spalle del nodo alla cravatta che strinse con vigore e fierezza.
Non bevette la tisana della moglie obesa. Spense la TV che parlava delle centinaia di migliaia di votanti al congresso.
Andò a dormire come ogni sera, tra stitiche nevrosi ed emorroidi.