Si discuteva di argomenti fighi.
Così sosteneva una persona che mi era apparsa inspiegabilmente vicina ed affine. Raramente ti capita davanti qualcuno che è capace di darti risposte a pensieri ancora inespressi.
Si stava facendo tardi, e si stava deragliando nei notturni sproloqui gonfiati dagli sbadigli, da quelle fauci spalancate dalla consapevolezza che non avrei dormito.
Con tre ore di sonno esposte sulle ciglia sfaticate, vengo richiamato alla vita dai passi disponibili e rassegnati di mio padre.
Piove. Bestemmio.
La pioggia si aggiunge ai tanti mugugni che sento vibrare nell'aria che separa il cranio di mio padre dal mio. Magari lui non stava pensando ad un cazzo niente, se non all'alzataccia che gli ho imposto. Magari avverto nella sua bocca semichiusa mugugni che avrei benissimo espresso da parte mia.
Me ne fotto, e procedo.
E lui mi guarda, seduto accanto a me, per nulla distratto dall'affanno con cui le spazzole dei tergicristalli stentano a drenare la sconcertante bizzaria del clima.
Un punto interrogativo promana dai suoi occhi. Non parla per via della tensione che giorno dopo giorno ho sciaguratamente interposto tra me e i miei fortuiti congiunti.
Me lo chiedeva con sospettoso ritegno, con delicato fastidio: "Ma che cazzo ci vai a fare a Bologna ogni mese?"
E lo servo subito, senza che il suo dubbio avesse avuto il tempo di tradursi in un quesito. "Vado a trovare un caro amico."
Si è sentito raccontare questa cazzata ogni volta. Troppe volte, ed ho l'impressione che abbia finto di credermi per pietà. La qual cosa mi irrita parecchio.
Odio le domande proprio perché non vorrei mai trovarmi esposto al rischio di dover mentire.
Tuttavia, riprendendo il discorso figo che avevo elaborato qualche ora prima: esploro, come sempre, la natura dei miei atti. So che in una partita con la verità il pareggio sono in grado di poterlo strappare, occorre un concetto che sembrerebbe improprio se espresso da me: l'umiltà.
Non è a mio padre che racconto cazzate, e le sue espressioni non convinte sono solo uno specchio. Tuttavia, fatti i dovuti conti con la verità, non mi impressiono e mi addentro nei miei propositi.
Viaggiare con un'unica borsetta, senza la necessità di recarsi dietro la carta igienica, è edificante. Eppure la mia soddisfazione di essere riuscito a concentrare l'essenziale in un'unica borsa viene aggredita dalla sirena del controllo di sicurezza che, ovviamente, squilla nella scansione del mio irrisorio bagaglio a mano.
Una manina rivestita dal guanto in lattice si intrufola negli stretti perimetri dei miei beni e servizi, alla ricerca dell'oggetto incriminato. Dopo pochi minuti viene estratto il reperto proibito: il bagnoschiuma.
Catalogato come sostanza contra legem, viene gettato via nella spazzatura. Un atto tale da indurmi a eversivi intenti avverso l'agente.
Mi placo.
Parto. Turbolenze. Un recondito neurone mi riporta in auge la mia sofferenza di vertigine. Guardo davanti a me. Dopotutto è come se fossi nel solito autobus lungo la statale 100, quella delle puttane. Solo che non devo guardarmi intorno. Anzi, a ben vedere le oscillazioni del mezzo sembrano persino inferiori alle danze del pullman.
Arrivo. Riaccendendo il telefono leggo un numero tale di messaggi che è apparso subito facile capire quanto sarebbe stato impossibile trascorrere dei giorni in assoluta spensieratezza e riposo.
Ripenso ai miei discorsi fighi. Ho voglia di chiamare la mia cara figa interlocutrice e rispondere alla domanda con la quale ci siamo salutati. Non una vacanza, non un week-end, ma una full immersion nella più sublime delle rotture di palle.
Il mio ospite mi attende fedele, ammaestrato, devoto. Cammina veloce, saltella. Capisco dalla sua camminata il perché di tante cose, ma proprio non mi riesce di condannarlo, per due ragioni: primo, nella sua follia costui è una persona autentica; secondo, vota nel mio collegio.
Impongo una doverosa pregiudiziale: che le nostre conversazioni in questi giorni vertano su tutto, tranne che sui legami per via dei quali abbiamo intersecato i nostri destini.
Ancora una volta mi chiedo a chi davvero è rivolta la mia esortazione. Perché sono io stesso a disobbedirmi, non nelle parole, ma nei pensieri, e nelle opere e omissioni.
Quelle stradine tutte uguali e quei portici gridano di aneddoti, di scazzi, di gestualità affidate all'aere. Nel silenzio antelucano, una via riecheggia ancora della cantilena incisa dalle rotelle del mio trolley celeste, fedele compagno di tante prese in culo.
Soprattutto in quei vicoli cessi tante volte percorsi, più di quanto non si sappia.
Il resto è stato una continua lotta tra me, la mia miopia e la ristrettezza del mio campo visivo. Nonché un delizioso compendio etologico sulla capacità umana di fare letteralmente a pezzi la concretezza e la verità.
Un episodio che mi ha fatto tenerezza.
La minuta biondina si appresta a rivolgermi la parola con le labbra timide. Praticante avvocato, si rivolge al mio compare:
- Sei un cafone a non presentarmi il tuo amico.- Le sorrido, e tolgo il mio ospite da ogni imbarazzo appropinquandomi verso costei.
- Piacere, Silvia. - mi risponde. Mi viene da ridere, come al solito.
Faceva caldo al parco. Il giorno prima io ed il mio ospite disquisivamo sulle ingiustizie della vita seduti alla panchina, proprio lì dove siamo fermi a discutere dei delitti e delle pene, con la praticante avvocatessa . Lui, lagnandosi, si riferiva alla sorte beffarda che lo ha privato del suo affetto principale. Io alla sciagura di non poter affondare i miei incisivi nelle torte sacher della pasticceria Castiglione.
La avvocatessa Silvia parlava, mentre io, senza ascoltarla, sfidavo la mia miopia ed il sole invasivo.
"...Anche un bacio estorto è punito come una violenza sessuale."
All'udire quelle parole, nell'incrudelità generale, scoppiai in una fragorosa risata. Pensavo al doppio volto della fessaggine.
Una menzogna cubica avrebbe fatto di una persona, un fuorilegge.
Un buco nel culo bello largo, con la ferma e responsabile capacità di confrontarsi con la verità, avrebbe fatto onore.
A distanze siderali, che deridono le velleità geografiche, gli individui esercitano, più o meno intensamente, la loro personale lotta.
Perché lottano?
Perché sono fessi.
Così sosteneva una persona che mi era apparsa inspiegabilmente vicina ed affine. Raramente ti capita davanti qualcuno che è capace di darti risposte a pensieri ancora inespressi.
Si stava facendo tardi, e si stava deragliando nei notturni sproloqui gonfiati dagli sbadigli, da quelle fauci spalancate dalla consapevolezza che non avrei dormito.
Con tre ore di sonno esposte sulle ciglia sfaticate, vengo richiamato alla vita dai passi disponibili e rassegnati di mio padre.
Piove. Bestemmio.
La pioggia si aggiunge ai tanti mugugni che sento vibrare nell'aria che separa il cranio di mio padre dal mio. Magari lui non stava pensando ad un cazzo niente, se non all'alzataccia che gli ho imposto. Magari avverto nella sua bocca semichiusa mugugni che avrei benissimo espresso da parte mia.
Me ne fotto, e procedo.
E lui mi guarda, seduto accanto a me, per nulla distratto dall'affanno con cui le spazzole dei tergicristalli stentano a drenare la sconcertante bizzaria del clima.
Un punto interrogativo promana dai suoi occhi. Non parla per via della tensione che giorno dopo giorno ho sciaguratamente interposto tra me e i miei fortuiti congiunti.
Me lo chiedeva con sospettoso ritegno, con delicato fastidio: "Ma che cazzo ci vai a fare a Bologna ogni mese?"
E lo servo subito, senza che il suo dubbio avesse avuto il tempo di tradursi in un quesito. "Vado a trovare un caro amico."
Si è sentito raccontare questa cazzata ogni volta. Troppe volte, ed ho l'impressione che abbia finto di credermi per pietà. La qual cosa mi irrita parecchio.
Odio le domande proprio perché non vorrei mai trovarmi esposto al rischio di dover mentire.
Tuttavia, riprendendo il discorso figo che avevo elaborato qualche ora prima: esploro, come sempre, la natura dei miei atti. So che in una partita con la verità il pareggio sono in grado di poterlo strappare, occorre un concetto che sembrerebbe improprio se espresso da me: l'umiltà.
Non è a mio padre che racconto cazzate, e le sue espressioni non convinte sono solo uno specchio. Tuttavia, fatti i dovuti conti con la verità, non mi impressiono e mi addentro nei miei propositi.
Viaggiare con un'unica borsetta, senza la necessità di recarsi dietro la carta igienica, è edificante. Eppure la mia soddisfazione di essere riuscito a concentrare l'essenziale in un'unica borsa viene aggredita dalla sirena del controllo di sicurezza che, ovviamente, squilla nella scansione del mio irrisorio bagaglio a mano.
Una manina rivestita dal guanto in lattice si intrufola negli stretti perimetri dei miei beni e servizi, alla ricerca dell'oggetto incriminato. Dopo pochi minuti viene estratto il reperto proibito: il bagnoschiuma.
Catalogato come sostanza contra legem, viene gettato via nella spazzatura. Un atto tale da indurmi a eversivi intenti avverso l'agente.
Mi placo.
Parto. Turbolenze. Un recondito neurone mi riporta in auge la mia sofferenza di vertigine. Guardo davanti a me. Dopotutto è come se fossi nel solito autobus lungo la statale 100, quella delle puttane. Solo che non devo guardarmi intorno. Anzi, a ben vedere le oscillazioni del mezzo sembrano persino inferiori alle danze del pullman.
Arrivo. Riaccendendo il telefono leggo un numero tale di messaggi che è apparso subito facile capire quanto sarebbe stato impossibile trascorrere dei giorni in assoluta spensieratezza e riposo.
Ripenso ai miei discorsi fighi. Ho voglia di chiamare la mia cara figa interlocutrice e rispondere alla domanda con la quale ci siamo salutati. Non una vacanza, non un week-end, ma una full immersion nella più sublime delle rotture di palle.
Il mio ospite mi attende fedele, ammaestrato, devoto. Cammina veloce, saltella. Capisco dalla sua camminata il perché di tante cose, ma proprio non mi riesce di condannarlo, per due ragioni: primo, nella sua follia costui è una persona autentica; secondo, vota nel mio collegio.
Impongo una doverosa pregiudiziale: che le nostre conversazioni in questi giorni vertano su tutto, tranne che sui legami per via dei quali abbiamo intersecato i nostri destini.
Ancora una volta mi chiedo a chi davvero è rivolta la mia esortazione. Perché sono io stesso a disobbedirmi, non nelle parole, ma nei pensieri, e nelle opere e omissioni.
Quelle stradine tutte uguali e quei portici gridano di aneddoti, di scazzi, di gestualità affidate all'aere. Nel silenzio antelucano, una via riecheggia ancora della cantilena incisa dalle rotelle del mio trolley celeste, fedele compagno di tante prese in culo.
Soprattutto in quei vicoli cessi tante volte percorsi, più di quanto non si sappia.
Il resto è stato una continua lotta tra me, la mia miopia e la ristrettezza del mio campo visivo. Nonché un delizioso compendio etologico sulla capacità umana di fare letteralmente a pezzi la concretezza e la verità.
Un episodio che mi ha fatto tenerezza.
La minuta biondina si appresta a rivolgermi la parola con le labbra timide. Praticante avvocato, si rivolge al mio compare:
- Sei un cafone a non presentarmi il tuo amico.- Le sorrido, e tolgo il mio ospite da ogni imbarazzo appropinquandomi verso costei.
- Piacere, Silvia. - mi risponde. Mi viene da ridere, come al solito.
Faceva caldo al parco. Il giorno prima io ed il mio ospite disquisivamo sulle ingiustizie della vita seduti alla panchina, proprio lì dove siamo fermi a discutere dei delitti e delle pene, con la praticante avvocatessa . Lui, lagnandosi, si riferiva alla sorte beffarda che lo ha privato del suo affetto principale. Io alla sciagura di non poter affondare i miei incisivi nelle torte sacher della pasticceria Castiglione.
La avvocatessa Silvia parlava, mentre io, senza ascoltarla, sfidavo la mia miopia ed il sole invasivo.
"...Anche un bacio estorto è punito come una violenza sessuale."
All'udire quelle parole, nell'incrudelità generale, scoppiai in una fragorosa risata. Pensavo al doppio volto della fessaggine.
Una menzogna cubica avrebbe fatto di una persona, un fuorilegge.
Un buco nel culo bello largo, con la ferma e responsabile capacità di confrontarsi con la verità, avrebbe fatto onore.
A distanze siderali, che deridono le velleità geografiche, gli individui esercitano, più o meno intensamente, la loro personale lotta.
Perché lottano?
Perché sono fessi.
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