venerdì 27 maggio 2011

Bell


Se avessi la consistenza del rintocco di una campana, non sarei capace a riascoltarmi nei campanili di una bellissima chiesa. Manca l'abitudine, e c'è troppa cattiveria.

giovedì 26 maggio 2011

La casa sul mare - 5


V
Intanto una voce di un vecchio si levava anch’essa da quella casa vicina. - Vera! Vera! Torna qui brutta bambina stupida… - Imprecava, chiamava, apostrofava la bambina.
– E’ tuo nonno, vero? - chiese lui, vergognandosi della pietà per quella povera anima ancora immune dalla realtà cruda.
- Sì, mio nonno è tanto severo, ha un fucile, dice che serve per far paura all’uomo cattivo che abita a casa tua. – Sorrise. – Si… fa tanta paura il fucile del nonno, tanta.

La piccola ebbe un sussulto improvviso verso di lui. - Vieni con me, quella casa è brutta, andiamo sul molo e aspettiamo papà!
Senza che lui potesse far nulla, Vera lo prese per mano e lo fece camminare con lei. Lui sentiva le sue gambe zoppicare accanto a quella piccola che gli curvava la schiena. Si lasciava condurre, senza opporre resistenza senza più ascoltare le voci che da quella casa sentiva levarsi verso la sua guida dai riccioli biondi.
Lei lo trainava e più camminava più si sentiva leggero, più riacquistava la linfa nelle gambe, più l’odore torbido della casa sul mare si disperdeva nell’odore del mare che sentiva vicino, sempre più vicino.

Raggiunsero il molo. Era freddo e nero, continuamente bagnato dalle onde, stretto e vecchio. Pareva un ponte in rovina, una pensilina collocata sul mare per attraversare a piedi le acque. Nessuna barca era ormeggiata ai suoi lati.
Attendeva anche egli di sprofondare nell’alta marea. Non se ne era accorto, ma all’estremità del molo questo aveva ceduto all’erosione del mare, e la punta era crollata in diversi blocchi di pietra franati chissà da quanto tempo. Erano ricoperti di alghe e di liquami sedimentati sulla roccia.

Guardò quel ponte interrotto, mentre un canto sottile e sussurrato dalla piccola accanto a lui che dondolava il suo braccio, per un attimo zittì il vento, e assopì il mare. Il molo pareva allungarsi, il ponte sembrava non interrompersi più e fuggire verso il cielo, sembrava una strada agevole che il suo cuore riusciva accogliere con sobbalzi sempre più miti, lontani dalla stanchezza, prossimi al tepore di settembre.
La spiaggia lontana appariva adesso pulita e chiara nel tramonto, l’acqua era immota man mano che ci si allontanava dalla battigia, ondeggiava con ansia, ma senza alcun impeto. L’acqua cheta assomigliava al mesto placarsi del suo respiro. In quel punto, con la piccola Vera, il suo affanno pareva predisporsi a svanire.
Vide anime e destini percorrere quell’acqua, passi e racconti, storie di naufragi e rimorsi raccontavano i primi riflessi della sera che rendevano invisibile il fondo bruno. Ed il mare narrava mille voci disperse, di gente che non tornava ai suoi cari, che lì però avevano incontrato la pace, altre infinite e invisibili dimore tra le onde, scrigni intoccabili, solcati dal vento e calpestati dagli angeli.

Lì apprendeva in quel silenzio accarezzato dai versi della piccola Vera, che la speranza riposava nell’immensità del mare, che la pace sarebbe stata il mescolarsi supino tra il calpestìo delle fate e degli angeli sulla superficie che evaporava verso il cielo… avrebbe voluti sciogliersi lì, ed evaporare anche egli, lasciando al mondo un umido pugno di sale.
Già sentiva mescolare le sue membra fra la spuma argentata che sgualcita si dissipava in superficie, e mentre calava tiepido il crepuscolo, quella tavola vitrea appariva sempre più lontana dall’abisso che soggiaceva nel buio delle acque. Avrebbe allungato docilmente i suoi passi salutando la piccola Vera che lo aveva condotto verso quel ponte tra la morte e la speranza.
Si sarebbe annullato nei meandri in cui riecheggiava ancora il sorriso del suo bambino mescolato con il suo durante i giorni sereni a bordo della piccola canoa. Sarebbe divenuto mare che avrebbe dato sollievo ad altre vite, sarebbe divenuto un’onda che avrebbe illuso Vera sul ritorno del papà disperso. Pensava già che la condanna emessa fosse stata più clemente, e che accarezzando quel lento svanire il suo male sarebbe evacuato lontano dall’anima…
Sì fermò a gustare tutti i momenti con respiri convinti, di quel ristoro dei sensi e la fine che avrebbe desiderato per ritornare al principio. Non si accorse che la mano della piccola non stringeva più la sua, e che il suo sussurro s’era bruscamente interrotto.

- Papà, papà, sta tornando papà! – la piccola aveva visto un piccola vela all’orizzonte e cominciò a correre verso la punta del molo. La superficie di questo era cosparso di alghe e di flutti, la piccola inciampava ma correva, correva, si rialzava e correva… scivolava, e correva per poter rivedere il papà disperso.
Lui la guardava correre forsennatamente, mentre il mare ricominciava a gonfiarsi e la marea avrebbe divorato tutto in pochi minuti sotto la sua fagocitante voluttà. Doveva salvarla e corse arrancando vistosamente, tentando di attirare l’attenzione della piccola con schiamazzi soffocati.

Passi gonfi di ferocia si mossero intanto dalla spiaggia.
- Vera! Vai via da lì! Allontanati dalla bambina brutto porco! – Un urlo diabolico giungeva, e si distinse un vecchio zoppicante con in mano un fucile che con falsa rapidità si dirigeva verso il molo, mentre caricava la sua arma, seguito da una donna in lacrime che chiamava con ardore il nome della piccola che aveva orecchie solo per il vento che doveva avvicinare a lei quella vela, nella quale cullava la speranza che ci fosse il padre.
Non s’accorse del vecchio che sopraggiungeva.
Decise che doveva correre ancora, correre verso la piccola, mentre le onde si alzavano sempre più maestose, pregustando di inghiottire la piccola preda. Corse. A passi soffocati. Ogni passo gonfiava i suoi polmoni logori, per quegli ultimi respiri che avevano un senso.

Quando fu a pochi metri da lei riuscì a chiamarla.
- Vera torna indietro è pericoloso lì – urlò lui alla bambina, che saltellava vicino alla punta del molo in prossimità del punto in cui questo rovinava nelle acque tornate maledettamente troppo furiose.

Il caricatore del fucile era posizionato e pronto a levare il suo latrato verso il molo. Pochi attimi, pochi passi, ultime voci prima del ruggito.
Lui correva. Il fucile si caricava di morte.

La bambina saltava sulle sue strette ginocchia. La chiamò con voce disperata mentre la sfuriava si gonfiava sempre di più in ogni attimo. La piccola Vera riconobbe una voce paterna che le diceva di ritornare indietro, e si girò sorridendo verso di lui, dando le spalle all’impetuoso precipitarsi delle onde affamate di terrore.
Un’onda si levò famelica investendo di spalle la piccola Vera che scivolava via strillando, e chiamava: Papà!… Mentre i suoi piccoli piedi non incontravano il freddo nero del molo, ma slittavano via verso l’acqua bramosa. Lui riuscì a raggiungerla in un balzo che avrebbe consumato tutto la vita che gli fosse rimasta, riuscì a prenderle il braccio e tirarla in salvo a sé.

Mentre dall’imboccatura del molo, la bestia ruggì.

Un unico sordo fragore, che intimorì anche le onde del mare. La pallottola perforò la sua testa, bruciando il cervello e asciugando con il calore dell’odio il sangue che dal foro infiammato non sgorgava neanche. Non ebbe il tempo di capire, di vedere, di presentarsi degnamente al suo appuntamento con il destino. In un istante si spense la coscienza.
Il tuono avrebbe consumato ogni misero desiderio di consumare quegli attimi agognati in cui aggrapparsi piano tra la vita e la morte mentre vi avrebbe voluto calarsi in quest’ultima cosciente e deliziato nel riposo della sua anima.

Dopo giorni di agonia e morte dell’anima, Vera era riuscito a condurlo su quel ponte dove si insegue la speranza, e lui quasi inconsapevole, concepì un desiderio di pace e redenzione. Pregustare la fine tra quelle onde e aggiungere il suo triste destino a quell’eterno ritorno che lo avrebbe reso infinito.
Ecco che malvagio e tetro il patibolo atteso s’era manifestato per lui, nella pena più atroce e violenta, deprivandolo dell’ultimo briciolo di vita che aveva trovato il coraggio di costruire nel suo cuore. Finì così il vano supplizio, senza coscienza e redenzione. Nell’oblio di un buco nella testa perforata con indifferenza, senza che sgorgasse via il suo sangue.

La piccola Vera gemeva terrorizzata con quella carcassa senza anima addosso. Il vecchio e la madre li raggiunsero al termine del molo. Sollevarono la piccola. La videro ansimare, con gli occhi sbarrati, non muoveva palpebre, ciglia, labbra. I suoi capelli parevano voler resistere al vento.
Pallida e smorta, la allontanarono via. Il cadavere putrido fu presto condotto nella casa sul mare. Il vecchio raccolse le travi di legno disseminate sulla sabbia e accese un fuoco cospargendo di benzina le mura decrepite, sollevando una fiamma che rendeva invisibili le stelle.

Tra le fiamme le pareti della vecchia catapecchia cedettero piano, il soffitto crollò improvvisamente sul cadavere che ardeva. Quella fu la sua tomba di odio e di fuoco.
La piccola Vera dopo qualche mese che non si muoveva più, che non parlava, che s’era trasformata in un vegetale marino, fu portata in un istituto di recupero psichiatrico. I pescatori, spaventati e costretti abbandonarono per sempre quella spiaggia.

La vita era completamente sparita. Il male, aveva compiuto il suo ciclo nell’eterno ritorno delle onde del mare.

martedì 24 maggio 2011

La casa sul mare - 4


IV
- Ciao - Irruppe una voce – mi dai la palla? – Vide dapprima una vecchia palla grigia accanto il suo piede sinistro che s’era bloccata tra questo ed il blocco di tufo sul quale era seduto. Poi scorse il volto di una bambina vestita poverella con un sorriso sincero e beffardo. Spostò la gamba cosicché questa potesse servirsi da sola, ma vide che la piccola titubava. Aveva paura, oppure era la puzza a dissuaderla? Allungò il braccio e la palla scivolò via verso la bambina.
Questa la raccolse e si volse di spalle ricominciando a correre dietro alla palla che si divertiva a scalciare maldestramente. Ridendo.

Ecco, riconobbe il suono primordiale che gli aveva infuso quella voglia di alzarsi e sentirsi riavere. Restò lì a lasciarsi catturare dal moto di quella creatura, che disordinatamente calpestava la spiaggia disseminandola di quell’incantevole viso, tanto raggiante, quanto inconsapevole.
Osservava quella farfalla spargere vita così, senza un perché, senza una meta che potesse guidarla, una mano che riuscisse ad afferrarla e portarla via con se, libera e confusa, senza fine, senza un tragitto rettilineo. Non s’interrompeva neanche per cadere, per rendersi conto d’essersi fatta male, di dover essere attenta, non avrebbe corso alcun pericolo, pareva, finchè avrebbe inseguito la sua palla. E nulla poteva intercettare quell’incomprensibile agitazione.

Ma lui, poveraccio, non era abituato all’aria ed al vento, e bastò un sospiro più sostenuto di questo per acutizzare una fitta ad un fianco, emise un sussulto e si alzò di scatto per contenere il dolore. La bambina si spaventò a quel repentino movimento. Poi ebbe quasi pietà, e gli venne incontro.
- Tu abiti lì? – chiese facendo segno alla casa sul mare. – Mio nonno e mia mamma dicono che lì ci abita una persona che prende i bambini, li rapisce, che abita in quella casa brutta e vecchia perché ce lo hanno rinchiuso i pescatori. Loro aspettano che la casa crolli. Lo conosci tu questo signore cattivo? – guardò la piccola che sorrideva mentre raccontava persino la paura con la pace nel cuore, un sorriso che avrebbe vinto il più cupo terrore.

- Si, lo conosco il signore cattivo, è dentro quella brutta casa che sta per crollare, è tanto cattivo, l’uomo più nero e triste del mondo… ma non prende i bambini degli altri papà, lui era un papà, il suo bambino gli è stato portato via dal mare, aspetta che il suo figlioletto torni da lui… E il tuo papà dov’è adesso? – Aveva quasi dimenticato l’uso della parole, formulò il suo pensiero con estrema lentezza… mentre una voce di donna chiamava da quella casa di pescatori che si eresse in un attimo di lì a poco lontano dal suo sguardo. Ergendosi anche nel suo ricordo maledetto, con tutto il livore del suo odio.

- Vera! Vera! Torna a casa è pronta la cena! Sbrigati!
- La mia mamma mi sta chiamando – Si voltò la bambina, senza accennare all’idea di volersene andare.
- Ti chiami Vera? Abiti in quella casa.
- Si, ma mia mamma non vuole che mi avvicino alla tua casa, ha paura che crolla ed io ho paura dell’uomo cattivo che ci abita dentro. – Diceva guardando instancabilmente oltre il molo, lontano, cercando un segnale che provenisse oltre l’orizzonte.
- Non torni a casa?
- No, devo aspettare il mio papà che torna con la sua barca… lo aspetto tutte le volte che ci sono le onde. Il mio papà è partito con la barca, partiva e tornava sempre, e mi dava un bacio… Ora sono tanti giorni che non torna, forse sta pescando un pescecane. La mamma dice che non torna perché sta pescando un pescecane grandissimo… - diceva allargando oltremodo le braccia - … una sera sentivo la mamma piangere, ed il nonno diceva che il mio papà se l’erano portato via le onde. Poi sento mia madre e mio nonno fare strani versi, però mia mamma piange sempre… Così quando ci sono le onde io vengo ad aspettare papà, lui tornerà quando ci sono le onde.

Cercava il suo papà, ingoiato dalle onde… Vera, dolce e tenera, innocente e inconsapevole, volteggiava sulla sabbia sporca di cenere e gabbiani morti per attendere un ritorno che non sarebbe mai giunto. Spargendo vita, attendeva chi probabilmente era morto. Ogni volta che il mare infuriava, lei veniva a reclamare suo padre.
Lui invece nella furia delle onde riconosceva il frastuono della morte. Ecco la differenza che lo separava dalla vita.

lunedì 23 maggio 2011

Stuck in the middle with you


Non so come sono capitato qui, stasera. Avevo la vaga sensazione che qualcosa fosse stata scorretta. Ho persino temuto di non reggermi bene seduto alla mia sedia.
Mi chiedo se sarò nelle condizioni di scendere incolume lungo le scale.

Starei qui ad ascoltarti per ore, riuscendo persino a lasciarti parlare senza interromperti con il mio ego smisurato che s'apposta come una volante dei carabinieri a valle di una strada in discesa.
Mi concederei solo di difendermi con una chitarra, mentre mi narri qualunque cosa sfoci dalla tua testa.
Arpeggiando un blues che non ti dia fastidio, e mi renda ancor più dolce il lasciarmi trapanare la mente dall'incisività dei tuoi occhi. Vere e proprie armi di beatificazione di massa.
Uno sguardo che demolisce la paziente opera di lucifero in questo mondo, una sorta di lavacro primordiale che impatta sulla coscienza come acida pastiglia in una fossa biologica.

Quelle tue parole che cancellano con una sola
detergente frase anni di soprusi inferti dalla pacificatoria necessità di non ignorare del tutto l'esistenza di congiunti iscritti nel miserrimo club dei possibili figuranti nel testamento.
Necessari solo come ultima spiaggia, come una pensione di reversibilità, come testimoni di un tamponamento a catena. Utili come pastorelli in un presepe inscenato ad agosto, opportuni come una pallottola nella nuca nel giorno del proprio onomastico.

Ti ascolto, e le tue domande penetrano nella mia anima come una flebo fresca e delicata dopo anni di erranza in un deserto senza escursione termica.
Mi sorridi, e mi sembra d'essermi improvvisamente lavato senza petali di rosa nel Lete, al cui confronto le terme di Caracalla assomigliano ad uno stagno radioattivo di Fukushima.

Vorrei ascoltarti per ore, mentre ogni tanto sorseggi da un calice di primitivo di quelli buoni che s'approria di tutta l'invidia di cui sono capace per la goduria di sfiorarti le labbra.
E ogni tanto ti lasci andare ad espressioni di cui ti vergogneresti se bevessi solo ossido di idrogeno, ma che ti rendono ancor più pura e presentabile al mio intelletto severo come uno sportello di orientamento al lavoro, popolato da addetti di un centro per l'impiego a cui viene imposto un inspiegabile straordinario.

Ingoieri il plettro per non doverlo perdere nel posarlo da qualche parte in evidenti condizioni di sbronza da conversazione, e ti tenderei la mano per invitarti a guardare Giove in un cielo d'estate.

Che poi tutti si chiedono del perché sia sempre Giove, e a ciascuno di questi luridi usurpatori di ossigeno pubblico, circolanti senza coscienza di classe a piede libero sul pianeta, consiglierei di sparire dalla scena del creato finché non abbiano appreso quale grande mistero si cela dietro la venuta dello Starchild.

Che altrimenti crepassero per avvelenamento da merendine infette.

Ma tu no. Lietamente verrai, come una commessa a sei zeri, come un container da 40' di voluttà, come un ordine franco destino di invidiabile grazia.

E non sarà solo il solito lapillo che incendia  l'ebbro vascello in fuga.

domenica 22 maggio 2011

La casa sul mare - 3


III
Corse accecato dal tetro presentimento. Vicino alla sedia del suo letto, un lago di sangue, e suo figlio con un buco alla gola ancora bruciato dalla pallottola, steso a terra senza vita.

Ora lui fissava quel vetro torbido, attendendo che il fragore del mare grosso gli riecheggiasse quella eco di morte che gli aveva strappato suo figlio. Perché ciò soltanto gli infliggeva quella pena da cui il suicidio lo avrebbe forse inutilmente salvato. Non cercava pace, né perdono, né altro, cercava il silenzio interiore di chi non è mai apparso a questo mondo.

Tragica fatalità, il responso della corte penale. Non era più nulla, non gli era rimasto più nulla. Nemmeno la colpa per aver lasciato che suo figlio fermasse il suo tempo a sei anni, lasciando lì inchiodata in quell’attimo tutta un’intera esistenza, tramutando i sogni in un epigrafe incisa su una lapide bianca. La pistola era stata ben conservata e nascosta, solo una stupida e tragica fatalità.

Era innocente secondo i canoni della civiltà umana, lindo, immacolato, il mondo gli consentiva di proseguire i suoi giorni come più egli gradiva, come se nulla fosse successo. Si era soltanto distrutto il suo unico motivo di vita.

La moglie andò via portandosi via con sé presente e passato, ricordi ed oggetti, lasciando che il futuro restasse a marcire solo per lui, per sempre prigioniero del fetore di morte di cui erano intrise le decrepite pareti della casa sul mare.

Qualcun altro al suo posto avrebbe pensato che un altro ridondante urlo della sua rivoltella, od un qualsiasi altro metodo di azzeramento di quei giorni inutili, sarebbe bastato per porre a compimento la deviazione che la vita aveva sancito per lui in quel giorno maledetto. Ma no, sarebbe stato troppo facile, la sentenza vera e propria non era ancora stata emanata, l’attesa prima del capestro sarebbe potuta durare ancora molto a lungo.

Depauperato della sensibilità attendeva, mite e freddo, che proseguisse quella miseria.
Mentre annegava nel suo nulla, all’istante sentì ridere, ed all’improvviso ricordò di possedere quella carcassa abbandonata dalla peluria canuta e senile, riuscendo persino a decifrare in quei suoni lontani un genere di sensazione a cui non ebbe modo di collegare un significato preciso. Credeva d’aver rimosso l’esistenza di tali versi che s’erano estinti dalla sua memoria dacché non li avrebbe più intesi sulle labbra e sulla gioia del suo bambino.
Ma qualcosa forse c’era ancora nella baia. Forse non tutto s’era riempito di morte.

Quasi senza volersi separare dalla seggiola carceriera che pativa la sua presenza addosso, si trascinò via in accenni di quelli che rimembrava si chiamassero passi. Si sentiva, si sentiva respirare, sentiva la presenza del suo corpo, dei suoi organi, del cuore che pompava il sangue che percepiva scorrere attraverso il suo corpo. Scoprì d’aver fame e sete, da quanto tempo non aveva inserito alcunché nei cunicoli dell’addome…

Scoprì la puzza che lo circondava, capì cosa fosse il sentore del disgusto, ma non s’accorgeva che molto emanava da lui stesso.
Aprì la porta della casa sul mare, alla ricerca di quel suono improvviso che lo aveva destato. Scoprì un mare che s’infuriava ai piedi di un cielo torvo con nubi dai contorni squamosi che accludevano ampie porzioni d’azzurro. Tutto intorno c’erano ammassi di travi in legno e carboni spenti di un fuoco che aveva arso lì vicino. Immerse i suoi piedi nella cenere e sollevando polvere e sabbia, scalciò via un passero morto che si consumava tra i carboni.

Osservò la presenza di un blocco di tufo nel silenzio interrotto dal mare e dai gabbiani. Il suo tremore nell’inetto cammino non gli permetteva di indugiare a lungo in piedi. Si diresse verso la pietra sabbiosa per appoggiarsi a scrutare quello scenario che gli si manifestava dinanzi. Le gambe subivano nel piegarsi uno strano turgore, una tensione rocciosa penetrava dalle caviglie per cementargli le membra ogni volta che un’onda si scagliava violenta contro la riva esacerbando il fragore del suo impeto.

C’era un’eco in quell’infrangersi che ancora lo atterriva, come unico contatto con l’esistenza, sentiva quei rigetti del mare come una frusta arroventata che impattava inferocita sulla sua coscienza… sentì qualcosa toccare il suo piede.
Eccolo, il patibolo forse si stava approssimando.

sabato 21 maggio 2011

La casa sul mare - 2


II
Era lì che un tempo sua moglie e suo figlio d’estate lo attendevano a pranzo.
In quello stesso tempo remoto, lui attendeva con ansia che il suo turno mattutino da guardia giurata finisse per raggiungere quell’ameno tugurio, e riabbracciare suo figlio impaziente di cavalcare le onde.
Uno sporco ma accogliente scantinato del paradiso, infestato da sorci e immondizia erano quella casa e quella spiaggia degradata. Un paradiso vituperato e scalfito dal risentimento e dall’invidia degli altri abitanti di quel litorale.

Più volte i vetri della casa erano stati ridotti in frantumi, e minacce più o meno celate pendevano su quella casetta, costruita troppo a ridosso della battigia da suo padre tanti anni prima.
Suo padre, anch’egli era pescatore, come tutti gli abitanti della zona. Si vociferava che presto sarebbero giunte le ruspe a radere al suolo quell’insediamento di gente semplice che si preoccupava soltanto di perseverare la pacata ed indifferente esistenza, sempre identica nel tempo.

L’idea di un villaggio turistico avrebbe rimosso quella speranza di conservazione. Ruderi decadenti e irregolari, abusivi, patrimonio inalienabile di gente che viveva del mare. Mietuti come fieno infetto dalle orde e dalle promesse del progresso.
Tutte destinate al macero tranne quella piccola casa sul mare, troppo antica, primogenita di quella triste prole muraria, diritto acquisito reso intoccabile dalla sua prolungata inutilità, e dalla sua posizione troppo poco appetibile all’avvento del nuovo e del moderno.
Tanto bastava a disseminare odio verso quell’intonaco divorato dai muschi e dalla brezza. E verso le anime che da quel giaciglio malandato traevano un mite gusto dell’estate.

Quel tragico pomeriggio di fine agosto che restava inciso tra le sue palpebre perse nel vuoto, il mare pareva indisposto a coccolare la voglia di vivere del suo bambino, e mentre egli riponeva piano la camicia della sua uniforme sulla sedia accanto al letto, il bambino piangeva. Via via più forte.

La canoa era arenata a qualche metro e da solo non sarebbe riuscito a governarla tra le onde. Il mare era agitato, ma la vita lo era di più, doveva cavalcare quella furia la sua irrefrenabile infanzia, così avrebbe avuto un senso. Quel giorno si sarebbe spento per suo figlio se egli avrebbe mancato all’appuntamento col mare, e l’infanzia avrebbe ceduto ancora una volta il passo al diventar grandi, attraverso una triste rinuncia.
Piangeva, strillava e non conosceva ragione. Non aveva mai picchiato suo figlio, era sempre stato buono il suo piccolo, non ce n’era bisogno. Ma sua moglie mal sopportava quegli strilli isterici, soprattutto se immersi tra quell’odiata noia di un deserto di civiltà nel quale il marito la costringeva ogni estate. Il mare era più oscuro quel giorno e la canoa non sarebbe rimasta a lungo in superficie.

Avrebbe ribadito il suo no, era troppo pericoloso. Ma il piccolo non s’arrendeva, doveva solcare le onde con il padre con la loro canoa. Piangeva, strillava, imprecava.
Iniziarono a levarsi urla dai caseggiati vicini, i pescatori non tolleravano quel fracasso, nelle poche ore che potevano concedersi il sonno prima di affidare vite e speranze alla mercè delle correnti marine. Intimavano al padre di zittire quegli strilli sempre più rochi.
Cominciarono a piovere insulti, e si stava innescando l’ennesima lite. Sotto gli occhi straniti e annoiati della moglie.

Una scena già viste mille volte, che si sarebbe risolta con il solito scambio di insulti. Il vecchio pazzo della casetta contigua alla casa sul mare, stavolta però pareva fin troppo nervoso perché sparò persino due colpi di fucile in aria.
A quel minaccioso incedere del vecchio confinante indiavolato, ad egli bastò guardare il viso atterrito e spaventato del suo piccolo prosciugato di ogni lacrima per il terrore che lo aveva scosso per gli spari, per riscoprire il sapore della rabbia. S’avventò contro quel vecchio dissennato armato di fucile.

Non s’accorse che lo sguardo atterrito del piccolo spaventato era diventato lo sguardo dell’odio che segue alla paura.
Era già qualche decina di metri lontano dalla casa sul mare, pronto a tutto per porre fine a quella spropositata minaccia, quando alle sue spalle, udì l’urlo fedele e lacerante della sua pistola d’ordinanza.

Un istante straziato, seguito ad attimi di tragico silenzio.
Poi le urla disperate di sua moglie che lo chiamavano.

giovedì 19 maggio 2011

La casa sul mare


I
Sedeva saldo, accostato a quella grande finestra serrata da tempo.
Il suo braccio destro giaceva grave sul freddo davanzale di marmo, immobile; il sinistro pendeva indifferente e le dita di quella mano tentennavano lentamente, ostentando un’opaca presenza di vita, quel che n’era rimasta e non accennava a distruggersi, perseguendo invano una secca e sconosciuta vendetta contro un rimorso amaro che lì lo aveva esiliato.
In un miserabile stato, che pochissimo sapeva d’umano.

I vetri luridi si rifiutavano ormai di riflettere l’impressione del suo viso, né permettevano allo sguardo di eludere il suo castigo, neanche per un istante. La luna del fresco cielo notturno non avrebbe mai avuto accesso in quella buia tana, per consolare chi si consumava in un letargo eterno.
Tutt’intorno aleggiava un’aria fosca, satura d’insopportabilità, di rassegnazione, di mestizia; il pendolo appeso alla parete ingiallita, che di là si confondeva alle sue spalle, non osava più cercare il coraggio per scandire gli attimi di un tempo defunto, relegato ai ricordi in cui tutto si era lì fossilizzato.
Tutto si sospendeva e forse la vita, dormiva, senza sognare, né reagire, e la notte avvolgeva la casa con straniera indifferenza e ripugnanza: le stelle non ardivano spiarla per non recarle offesa o disturbo. E il mare, che s’abbevera sazio e non pago delle intangibili lacrime che la reietta violenza scagliava disperse, riposava spesso quieto contemplando la noia che l’empio vento riusciva a sfiorare, per non carpire ancora dolore e angoscia.
Occhi sguainati dall’esistenza che non trovarono la via di riaversi al profumo del sole, non avevano incontrato ancora faccia a faccia il destino che leggesse loro la sentenza che avrebbe sancito la risolutiva condanna.

Ansimava. Il fiato singhiozzante non aveva più lacrime da disperdere alla mercé delle onde.
Espirava.
Confondendo al respiro un’enorme brama di liberazione da quell’affanno asfissiante, dal quale immaginava di separarsi piano, lungo piccoli passi di salvezza tracciati per lui dalla prudenza di essere, che l’avrebbero avvolto di pace, spogliandolo dalla carceriera memoria di uomo errante, adagiandosi nel breve ristoro della sua debolezza, pago dell’insulsa dimensione finalmente lambita.

Una meta silente ove l’ozio della ragione e dei sensi era bottino sopraffino ricchissimo, al riparo dal vento, il suo naufragio si sarebbe così tacitamente arenato, nella baia dove non albeggiava mai estate, dove la follia di petali secchi di una primavera remota non avrebbe sussurrato l’abbaglio dello strappo che lo spogliò della sua anima.
Poi inspirava. Tanto e tanto forte. Con furia. Con rabbia. Con realtà. Per assorbire in sé quella cappa di piombo che gravava minacciosa, immergendo sempre più in fondo ai suoi polmoni, alla sua milza la sua colpa, e l’atroce condanna di cui egli sempre volle recitare il copione del boia più spietato; ma… se l’umana viltà avesse fatto mai capolino sorretta dall’orgoglio, dalla dignità, dall’infernale sentirsi di sé, dagli inganni meschini di un mondo che aveva forgiato il male covandone il seme nel suo seno protetto, che l’avrebbe accompagnato verso un tramonto improvviso cui non sarebbe seguito alcun giorno bensì una notte che in un attimo avrebbe annerito d’ombre l’idea stessa del tempo impercettibile, che avrebbe cancellato tutto senza preservare la via da cui la vita sarebbe potuta tornare accanendosi nell’impedire ogni ritorno possibile, allora egli rigettava fuori dal respiro ogni cosa. Per poi ritornare al patibolo, quasi s’allontanasse da sé per essere parte del fumo ansante che divorava la sua insulsa presenza, che aveva per sempre escluso la vita dalla casa sul mare.

Nulla poteva racchiuderlo in categorie umane. Tranne quel trascendente castigo che s’era cucito addosso con le mura di quell’umida casa. Neanche l’ufficiale vessillo di una colpevolezza acclarata e pronunciata da un giudice. La colpa è pur sempre un abito sporco che tiene ancorati all’esistenza, è l’idea di una presenza dai precisi connotati scalfiti dai giorni vissuti.

Quella casa sul mare era tutto ciò che gli fosse rimasto dell’eco dei ricordi. Un tempo era stato un delizioso appoggio di fortuna per le vacanze, piccolo e scomodo, ma prezioso rifugio di pace, in un villaggio di pescatori che vivevano delle fecondità del mare.

mercoledì 18 maggio 2011

La maieutica: Alcor ed un'ostetrica bona


- Aiuto Alcor, perchè la gente cerca sempre di indirizzarmi sulla retta via partendo con menate sul cristiansimo?

- E chi lo dice che sia quella la retta via?

- C'è 'sta mia amica infame che è fermamente credente e comunista. Sta cercando di convincermi che i primi comunisti sono stati gli apostoli.

- Nel senso che hanno fatto cadere il governo Gesù, come fece Bertinotti nel '98 col governo Prodi?

- Ahahahahah. Ma se la mettiamo così sono stati gli uomini delle caverne.

- Ciao, devo andare, il mio posto è là.

- Ciao,  W Gesù.

lunedì 16 maggio 2011

Send me dead flowers to my wedding


Ad una donna-geco:



- Sei andata a votare?

- Sì. Gli conviene fare qualcosa per la cultura o lo ammazzo con le mie mani, dillo al tuo amico.

- Se dobbiamo sposarci dobbiamo fare una cosa veloce: cambierai la tua residenza quaggiù, mi voti l'anno prossimo e poi divorziamo, ok?

- Sono in una giornata terribilmente acida, incazzosa e nervosa... sii felice di essermi lontano.

- Per un voto sopporterei qualsiasi acidità. Questa è una guerra.

- Moriresti sciolto, nella mia acidità... alché il mio voto non ti servirebbe più a un tubo.

- Nooooo, io sono basico, al massimo resterà del sale sul fondo del contenitore delle nostre vite.

- "...al massimo resterà del sale sul fondo del contenitore dlele nostre vite..." Sì, ok ti sposo.

- Son troppo brrrrravo a raccontar cazzate per convincere la gente.

- Sì, confermo.

- Considera quella frase un dono di nozze. Più che parole non saprei cosa regalare. O preferisci un solitario?




Fuggita inesorabilmente. Mai raccontare tutta la verità in campagna elettorale.

domenica 15 maggio 2011

Agenda esistenziale


Certo che mi piacerebbe: evitare prologhi confusi, contestualizzati encefalogrammi di ogni singolo proposito. Restare con una bolla d'aria tra un paragrafo e l'altro nel pressurizzare una risposta che non appaia dettata da rappresaglie, o da rimorsi, o dalla volontà di ristabilire un punto d'orgoglio in una partita interrotta per impraticabilità del terreno.

Mi piacerebbe avere quello spirito grazie al quale era normale mollare ogni cosa  e divorare le distanze, per garantirsi pochi minuti di sacro litigio, per quell'affinità così perfettamente adiacente e così apparentemente ingestibile.

Sarei stato curioso di scoprirmi indifferente al punto di assorbire qualsiasi soluzione come fosse incolore e insapore. Farsi dettare i ritmi dalle incombenze esterne, e non dai riflessi delle proprie inadeguatezze sottese.

Mi piacerebbe sospendermi, come ci si sospendeva quando la vita delle nostre parole acquisiva una forma propria e incontrollata, che talvolta ci ha infuso una dolce paura. E quasi mi consola l'incertezza nel proferire un giudizioso rifiuto, il precipitato salinico di una miscela aritmeticamente perfetta nell'indirizzo della coagulante salvaguardia del sé.

Un tempo si pensava che la propria salvezza sarebbe anche potuta passare sotto il giogo di una paziente sconfitta, come risultante di un'importazione tacita e silente di una qualunque forma di nobile offesa.

Filtra poca aria dal muro, ed è ancora troppo lontano per sentirsi a casa.

lunedì 9 maggio 2011

Al sodo


Bene, visto che ci siam trovati, e abbiamo resistito qualche minuto senza avvertire l'esigenza di rimuoverci reciprocamente dalle compagnie, preferisci che perda tempo nell'invitarti a prendere un caffé, o possiamo procedere col fare sesso senza tante ipocrite cerimonie?

sabato 7 maggio 2011

Dead Flowers


E giungono quei mattini in cui è evidente che qualche pandemia nevrotica stia dilagando tra i cani e i gatti.



Il tasso di mortalità per disattenzione nell'attraversamento stradale di questi docili mammiferi sta avendo un'impennata impressionante.



 



In queste giornate in cui ci si sveglia alle 6.00, e ad accoglierti nel  rinnovato mondo c'è la nomina di nuovo sottosegretario, il mio pensiero si biforca.
Una metà di esso corre spedita verso il barattolo della marmellata segregato nella credenza; l'altra metà corre attraverso le pianure del Tennessee, superando in un sol colpo le agende, i rasoi, le cravatte, i tuoi sorrisi esteri e gli sguardi languidi. Il portafogli e le assemblee, le decisioni e le dimissioni.



In questi giorni in cui basterebbe soltanto farsi indossare un bicchiere di vino, piace pensare che in fondo, tutto potrebbe essere limitato a far passare un po' di acido muriatico sulla democrazia.

Ad essere ingordi ci accontenteremmo di credere che verrà un giorno in cui i polmoni potranno essere sostituiti come i filtri dell'olio-motore, e che sarà abolito il monopolio di stato sui tabacchi.

Restiamo Umani. Troppo umani.



Take me down little Susie, take me down
I know you think you're the Queen of the Underground
And you can send me dead flowers every morning
Send me dead flower by the mail
Send me dead flowers to my wedding
And I won't forget to put roses on your grave

mercoledì 4 maggio 2011

La dolcezza del ferroviere


- Ti sei svegliato presto stamattina.


- Erano circa le quattro.

- Ma sei andato a letto all'una... Qualcosa ti turba?

- Le mie soddisfazioni più sfarzose le colgo nel rimuovere i Trojan dal mio netbook.

- Mi dai libero accesso ai tuoi pensieri reconditi?

- Non ho più la password.


Si sentiva a propio agio e d'accordo con una minoranza di persone. Ora neanche più con quella. Saranno state le immagini taroccate del volto pestato a sangue di Osama Bin Laden, e gli esotici racconti di assolate strade africane, ma quella notte s'era svegliato di soprassalto.

S'era scoperto a rimestare nostalgie in preda ai narcotici riflessi di una fase REM viziata da una propensione insana tra psicanalisi ed Inception. I sogni l'avevano spesso condotto a recuperare  i ritardi lungo i binari di un treno in imminente partenza, popolato da viaggiatori malformi.

Si recò al lavoro con insolita solerzia, motivato a sospendere quell'incidentale episodio nel background della sua paga giornaliera. Non riusciva a giustificare i propri comportamenti e le parole che mancavano puntualmente l'appuntamento con l'opportunità e l'occasione di eventi lanciati a velocità non irresistibile, lungo la tratta che gli era stata assegnata nel turno mensile.

Poteva sembrargli una ritirata spagnola da tutti i mea culpa inculcati dalle inadeguatezze degli appuntamenti precedentemente colti con precisione svizzera.
Adesso disegnava involontariamente olgrammi nel proprio fiato, in un umido mattino di maggio, aspettando che il proprio spuntino di metà mattina si scongelasse.

Mancava la dimostrazione pratica delle proprie doti, quelle che avrebbero consentito ad una mente moderatamente brillante di collocarsi come meglio avrebbe meritato.

Non tutti i suoi talenti erano stati resi al termine del viaggio. E non tutte le coincidenze aspettano il congiungersi degli animi proprizi con l'approssimarsi degli attimi compiacenti. Scendendo dalla carrozza accidentata era stato poco accorto a non dimenticare un bagaglio colmo di delicate attenzioni e dolci premure che sembrava ora irrintracciabile.

La sera precedente non aveva bevuto. Colei che lo accompagnava aveva il fiato d'un cocktail ionizzato.

- Perché non riesco a dirti mai di no? Te ne stai lì con lo sguardo perso che ti mura alle spalle della civiltà. Fammi entrare.

- Non c'è nulla.

- Hai le mutande troppo strette. Laggiù c'è qualcosa che soffre la mancanza di adeguati spazi.

Interruppe bruscamente la propria opera in seguito ad un giramento di testa. Aveva bisogno di vomitare e corse in bagno.
Lui la seguì con gli occhi, guardando altrove uno specchio che poteva rifiutarsi di ritrarlo in quella vergognosa sospensione dalla propria dignità.

Lei era piegata a singhiozzare. Smaltiva le conseguenze dei propri eccessi, e della propria miserabile riluttanza a smettere di umiliarsi per la libera scelta di farsi trattatre da rimorchiatore a chiamata per solinghi rottami.
S'alzò di scatto e la raggiunse. Era china, e le sollevò la gonna mentre lei espelleva. Cominciò a prenderla con veemenza da dietro, ed i singhiozzi acidi di lei si frammisero a sussulti.
Ché in quello spurgo avrebbe risolto la contraddizione che lo lacerava e lo esiliava nella condanna ad un silenzio di un'anima non del tutto espressa.
Finì, ed andò via senza un saluto, dopo aver rimosso con dovizia le tracce dell'incauta brama di autodistruzione.

Dinanzi al treno in partenza ripercorreva l'inflazionamento e lo sperpero di vita che lo aveva condotto a spalare quella tale montagna di merda dalla porta d'ingresso della felicità.
L'insipiente inadeguatezza che ne era venuta a galla, e la dolcezza che era stata estinta.
Non era stato il suo lavoro a renderlo un po' più cinico, un po' più avaro.

Poi all'improvviso la chiamata che aveva smesso di attendere, quella che avrebbe reso più accettabile il ritardo della sua coincidenza. Quella voce che sottendeva gioia ed innocenza tra i silenzi impercettibili che fluiscono tra una domanda e una risposta.

- Volevo soltanto chiederti l'orario del prossimo treno in partenza da Milano. Tutto qui.

Tutto qui.