martedì 30 giugno 2009

Lame Alcor

Ad un processo per amore
baciò le bocche dei giurati
e ai loro sguardi imbarazzati
rispose "Adesso è più normale
adesso è meglio, adesso è giusto, giusto, è giusto
che io vada "
ed i giurati lo seguirono

a bocca aperta lo seguirono

sulla sua cattiva strada...


E quando poi sparì del tutto
a chi diceva "È stato un male"
a chi diceva "È stato un bene "
raccomandò "Non vi conviene
venir con me dovunque vada,
ma c'è amore un po' per tutti
e tutti quanti hanno un amore

sulla cattiva strada...

Ah... le gabbie delle strutture sociali... quanti danni...
Un po' sceme come la paura, un po' bislacche come un capriccio, o come una nostalgia.
Il copione fa cacare. Come le prugne.

sabato 27 giugno 2009

ESTA status Update

Ritengo giusto dichiarare guerra agli Stati Uniti.


Come i giapponesi, resisto.


Non vedevo una partita dell'under 21 da quando ero un under 21.


Come cacarsi il cazzo a Roma. Ne sono capace.


lunedì 22 giugno 2009

Ebben? Ne andò lontano







"Fumo un'altra sigaretta, perché è facile buttarsi via. Respiro e scrivo. Tutto quello che mi manca è un'assurda specie di preghiera, che sembra quasi amore... "

La pioggia leviga gli argini dei confini tra i luoghi che popolano il mantello dell'esperienza. Come una deriva al contrario di tutti i continenti che regrediscono nella pangea dell'unicità dell'essere.  Colui che dà forma alla vita filtrando i respiri ed i pugni del mondo, nella recondita gemmazione di impermeabili squame ad ogni indesiderata simbiosi, ad ogni sbadato stupro della propria eleganza incorso erroneamente durante l'infantile ratto della propria dignità.
Tornando ad essere misura e giudice scelto dal prato madido in cui raccogliere la cotta coriacea esposta ad asciugare durante un temporale.

La pioggia invisibile che si sospende nell'aria all'altezza delle labbra e della fronte non tocca le orme ed ha la stessa ingiustizia di uno starnuto contrito e di un'ansiogena attesa sospinta oltre l'orlo di una discarica abusiva.
Avevamo imparato dalla pioggia a cadere, e dallo scirocco a rialzarci. E dal vento, che decreta la dislocazione della polvere nello spazio, quale fosse la giusta collocazione delle cose.

C'era quella stessa pioggia, e indossavo gli stessi occhiali.
Sarà l'ultima notte in questo letto.
L'ultima nel volto che mi riconosco oggi. Il volto che strisciando la barba sulla delicata pelle salvava una lacrima dal confondersi in una goccia di pioggia che ne avrebbe sminuito il carico.
Il volto tratteggiato dalle traccie di quanti vi hanno posto un firma, o staccato qualche calcinaccio. Il muschio che vi aveva appeso il riscatto di voglio bruciate.

Mia nonna mi attendeva in fondo a quelle scale dietro il portone sul suolo bagnato dalla pioggia.
Ed è così che finalmente me ne vado.

Sembra che non me ne fotti nulla. Non ho l'ansia dell'ultimo giorno. Ho cancellato l'ultimo giorno per aspettare direttamente lo sconto al varco della dogana. Non ho nulla che possa rischiare di dimenticare, nulla che possa rivendicare il diritto di rappresentare un ponte di rimpianto tra questa culla e quel cielo.

Forse abbandono soltanto il rabbocco delle sensazione dal mondo esterno alla mia cisterna. Un pieno che non trasuda pensieri o fa trasparire segni di ammanco.
Arriverà un giorno in cui riuscirò di nuovo a parlare, a scrivere, ad ascoltare.

Troppe parole sbagliate, troppe. Foss'anche il rigurgito di difese estradate dalla propria paura. La comprensione è emozionale, la pazienza è illuministica.
E se i ricordi son tanti, nessun rimpianto.

Un tale espansione mi ha consentito di trattenere in me ogni cosa, al punto da non rilasciare neanche la possibilità di un'appendice di rimorso in coloro che mi hanno lasciato andare.
Per un'unità faticosa e fallace, per un pigrizia acerba che affetta il mio movimento del dare. Per quell'egoismo non ipocrita che è soltanto il tenore più sincero di ogni mio dono.
Che non si svende.

"...splendi sole, da far male.  Ho già fatto le valigie, ma rimango ad aspettare. "

Dalla mia prospettiva condita dal fumo, osservo il panorama più vasto che mi ha cantato la vita. Quello dal quale ho raccontato i miei moti a qualcuno via via più distante, agganciandone la voce  alla stiva dei miei desideri, e vedendone i passi raggiungermi al di là dei contorni del mare lontano.

L'eredità del silenzio è quella intrusione di sconoscenza che spezza gli sguardi di esseri paralleli naturalmente viventi per ammirarsi e tenersi.
Lo splendore che ha illuminato la breve e invalicabile distanza.

Eppure, in questa dubbiosa arsura che ha prosciugato ogni arco teso all'incontro, permane il sovrastante disegno del cielo.
Il cielo che non cambia mai. Che cambia poco, e lentamente.

E se questo mio cielo persisterà a quanto vivrò, io ne resterò dentro, silenzioso e vivo.
Intorno a me, nessuno. E furono soltanto fruscii di nuvole lontane.
Soltanto fiordalisi.

"...tutto il bene che so dare,  come il sasso e la fontana,  si consuma, si consuma."

martedì 16 giugno 2009

mercoledì 3 giugno 2009

Il Sorpasso

"Amici, dobbiamo riaffermare con fermezza che la giustezza di un'opzione politica non ha nulla a che vedere con il grado di popolarità dei leader che la propongono. La nostra credibilità ha uno scoglio irto da sormontare: la populistica visione secondo la quale la verità e la ragione stiano sempre e comunque dalla parte del consenso. Non è così. Una soluzione può essere sì largamente maggioritaria, ma non per questo diventare automaticamente positiva.

Per questa ragione dobbiamo affrontare con lucidità la complessità e le articolazioni del mondo intorno a noi, indirizzare i processi mediante un protagonismo ritrovato della politica. Combattere senza ipocrisie coloro che parlano in maniera superficiale direttamente alla pancia delle persone.

Fermo restante che, da quel che emerge con le candidature di veline e sciacquette, non si parla più nemmeno alla pancia della gente.
Ora si scava nelle frustrazione più recondite dell'animo umano.
Si parla direttamente al cazzo delle persone..."


Finisce l'assemblea. L'uditorio si spopola tra qualche risata, i cellulari si riaccendono, qualcun altro resta ancora per sistemare le sedie, spegnere i microfoni.
Accende una sigaretta, strappa i foglietti su cui aveva frettolosamente appuntato qualche battuta, e guarda il telefono. Nessuno.
Stringe una mano ed elenca le prossime disponibilità, le prossime volte. Prima della partenza, quando calerà un massiccio spot con la scritta "Intervallo" su tutta la sua esistenza.
Sua madre è in ansia per le notizie che giungono dalla caduta del volo Air France. "Tranquilla, stai tranquilla", le diceva. Statisticamente me la sono scampata, anche se fa un certo effetto.
Be' in ogni caso ci potrebbe essere la soddisfazione di vedersi intitolata la federazione provinciale, non è mica roba da buttare.

- Vieni con noi?

- Aspetta. Forse vale la pena che io vada a salutare una persona...

Le si avvicina. Non è molto cambiata, in effetti. Non deve accarezzarla, è una questione di regolamentazione della vita umana. Un gioco di barriere all'entrata, come sempre.

- Come stai?

- Bene. Che fine hai fatto? Sei schivo.

- Conseguenze.

- Vedo che dopo tutto questo tempo la tua carriera ha fatto progressi. Io lo dicevo sempre.

- La meglio gioventù. Era splendido parlare con te, anche di tutto questo. Ho continuato da solo.

- Sei contento di tutto questo?

- Direi di sì, darling.

- Lo sapevo.

- Io non lo sapevo. Ora? Che ne pensi?

- Sinistra. Un po' più in là di te.

- Davvero?

- Sì.

- Perché?

- Sono delusa.

- Ah...

- Ma che fai?

- Me ne vado.

- Perché?

- Fammi un favore: non mi guardare neppure.

Il bar era la solita meta; pioveva. La tenda prendeva solo metà del tavolo con le gambe di vimini. Una chiamata. Chiuso. Spento.
Ordinava un Montenegro e depennava, da un foglio piegato in otto, impegni ottemperati ed altri indesiderati.
Giunto il cameriere con il suo bicchiere, lo guarda dal di sotto del mento.

- Lo sai, è come essere guardato. Non sei del tutto solo. Non vuol dire essere controllato, o schiavizzato, la libertà c'è, è protetta, esaltata. Esiste, però, una specie di ringhiera che accompagna la tua strada. Ragazzo, qualche volta i talloni si gonfiano. Nonostante tu abbia i polpacci pesanti, e lì che devi appoggiarti. Non puoi fare altro.
La vedi quella persona? Posso invitarla a bere qualcosa con me, farla attigere alla ciotola dei miei arachidi e poi farmi sorridere. Credi che in quei momenti io sia rimasto mai solo con quella persona lì? No, mai stato.

C'è un abbraccio verso il quale, con l'andare del tempo, non avverti più una nostalgia che si diluisce nelle incombenze del tempo. Resta un'autentica impronta alla quale ti abbandoni inconsapevolmente, alla quale cingi a rimorchio il decorso dei giorni. Alla quale affidi senza volerlo il transito pigro e la maniera con cui deviare gli ostacoli.
Come una risposta nascosta che fa deviare la decisione sospesa tra due diverse ed eguali opzioni. Pesa pochissimo, come una piuma di rondine.
Ma è quel soffio minimo, alla fine, che ti fa pendere un piatto da un lato anziché da un altro. E quella sottile e madida infiltrazione di vita diventa più dirompente di un grave che blocca l'obbligatoria via di fuga dell'accontentarsi.

Ogni rotta è segnata da questo tipo di incontri, ragazzo. Forse lo sarà anche per te. Te ne accorgi quando tutto questo, che si crea innanzi a te, crolla.
Hai capito, figliolo? Sinistra estrema... e le rette parallele divergono inesorabilmente.
Quel sedimento di certezze ti precipita addosso smascherando tutta l'intemperanza della tua mente. Quando pensi di vivere costellato di taluni immodificabili dati che sfuggono al tuo controllo quando non è la realtà a ponderarli. Bensì l'attesa.

Non si può attendere in eterno, figliolo, sappilo.
Primo poi dovrai lasciarti andare. Però oggi sono particolarmente stanco e scosso, caro ragazzo. Questo fedele bicchiere, oggi, non ci voleva.
Perché è tarda notte e devo tornare a casa.

C'è un amico che sostiene che faccio sorpassi azzardati, un po' al limite. Io rispondo che questa strada la percorro tutti i giorni quasi a memoria, quasi ad occhi chiusi. Ed è più pericoloso che le staristiche degli Airbus precipitati in fondo all'Atlantico.
Lo so.

Penso al mio appannamento in fondo alla sera, a capo di ogni casino e di ogni condivisione.
Penso al pericolo del non mantenere la distanza di sicurezza. Per arrivare presto a casa, attendere vigile il nuovo giorno e capire se qualcuno vi si affaccerà.
Come raramente accade, ma a quella finestra resto sempre inamovibile come una roccia, un po' scazzata. Erosa. Ma roccia.

Per questo ad ogni rischioso sorpasso sembra che ad esserne uscito vivo possa essere stato solo il mio spirito, o la mia volontà frammista. Punti un po' più forti di un'entità corporea perdibile nell'imprevedibilità di un incidente.
La materia imprevedibile e fragile, la volontà indeterminatamente decisa a proseguire indomita.

Ma non posso morire, no. Perché se lei domani dovesse svegliarsi io potrei avere ancora voglia di dirle qualcosa, e lei lasciarsi ascoltare.

Dopo la ciclica rottura di palle, ne riparliamo. Fanculo alle lampade votive, non servono a un cazzo. Diteglielo a quello stronzo nell'ufficio tecnico.
Puah.